Mi chiedete di scriverne ma non immaginate quanto mi costi, perché riaprire certi cassetti è doloroso, soprattutto se sono pieni di te. Pochi giorni fa a seguito dei beceri festeggiamenti sui social per il contropestaggio di una bulla ho scritto di getto un post, senza troppi fronzoli (come tutte le cose sincere e spontanee), ma è come se mi avessero picchiato ancora, a distanza di anni: perché non riesco a gioire del pestaggio di nessuno, neppure di una bulla, e trovo violento e insensato e violentemente insensato e insensatamente violento chi gode di una cosa del genere, dimenticandosi che siamo tutti persone e che la paura e il dolore sono sentimenti comuni che nessuno dovrebbe subire.
Parlare di me, pensare a come ero, mi fa soffermare sul fatto di aver vissuto già due vite ed è in corso la terza: dalla nascita all’8 aprile 1996 e dal 9 aprile 1996 al 16 settembre 2003; dal 17 settembre 2003 ad oggi. Doloroso e ricco di soddisfazioni allo stesso tempo.
(Mi soffermo sulla seconda vita e cercherò di non fare troppi sofismi, di non fare lo psicologo da strapazzo).
Nella mia seconda vita non passava istante che non mi sentissi sbagliato, ero troppo o troppo poco e quando ti senti inadeguato credi che tutte le cose brutte che ti capitano te le meriti. È andata a finire che pensavo di meritare il disprezzo dei miei coetanei, che in qualche modo lo cercassi, vittima di una sindrome di Stoccolma più insensata che giustificabile.
Ero diverso. Nella mia vita nelle mie vite mi sono sempre sentito diverso, anormale, speciale (non in senso necessariamente buono). Leggevo e mi sono dovuto adeguare, rispondevo educatamente e mi sono dovuto adeguare, non dicevo parolacce e mi sono dovuto adeguare, non fumavo e mi sono dovuto adeguare. Ma non bastava: un gatto non passerà mai per cane, anche se cerca di abbaiare forte. E così ero il bersaglio preferito, quello perfetto.
Mi hanno umiliato e le parole che leggevo nei libri non mi aiutavano a rispondere a tono.
Mi hanno picchiato e la mia enorme stazza imponente diventava un ostacolo invece che un’autodifesa.
Mi hanno braccato, un giorno di pioggia che ancora ricordo, così come ricordo la pioggia di pietre che mi colpì e ricordo anche che quelle pietre pesavano come fiocchi di neve in confronto alla desolazione e allo sconforto che mi prese, incredulo di ciò che mi stava accandendo. “Avranno sbagliato” pensai dopo la prima pietra alla lente destra dell’occhiale da vista, ma la pioggia non smetteva e loro festeggiavano per ogni bersaglio centrato.
Spesso tutto accadeva sotto l’indifferenza dei professori e sempre sotto l’indifferenza della mia famiglia, che cercava di spronarmi a reagire, a non porgere l’altra guancia, bensì ad attaccare per non essere attaccato, pane al pane, vino al vino. Li guardavo e li ascoltavo e non potevo che restare deluso dal fatto che diventassero anche loro delle bestie come le bestie che ero costretto a subire a scuola. Andai a vivere dai miei nonni paterni.
Mi sentivo solo, lo ero. E così un giorno mentre rientravo da scuola ho pensato a come avrei potuto farla finita, definitivamente. C’è qualcosa di più sbagliato e ingiusto di un quindicenne che pensa al suicidio? Forse sì, forse ce ne sono parecchie, ma non si possono e non si devono mettere sui piatti della bilancia le ingiustizie. E mentre pensavo a come morire, una corriera che andava molto veloce mi sfiorò mentre attraversavo la strada. Pensai “un centimentro più in là e ora avrei messo fine a tutti i miei problemi”. Ma poi guardai in alto e vidi il cielo, sentii il vento freddo, il rumore delle auto, la fame in pancia, la sete in bocca, le lacrime cadere, e vidi le facce delle persone, e davanti a me un palazzo e gli alberi e tutta la vita che volevo vivere.