Fortuna è sera ormai

[seconda parte] 

Ho già detto come la penso sui perbenismi e i paraculi in generale? Mi pare di si. Anche se nel giro di un paio di giorni ho dovuto rimandare la pubblicazione di questa seconda parte (preso com’ero dall’evolversi della faccenda Lucido Sottile) questo post è rimasto nella mia mente e anche un po’ nel cuore.

Gli altri…un pubblico ingessato, un pubblico che ci avrei gettato volentieri una bomba in platea, ma non per tutti, solo per la gran parte di persone che si sono sedute lì per provare una finta pietà e versare finte lacrime verso chi faceva lo spettacolo ed era, alla fine dei conti, più sano di loro.

Dovevi vederli: dopobarba dozzinali e profumi da battona, tante belle parole ma sguardi schifati verso i ragazzi della scuola di teatro “Il Mestiere dell’Attore” che interpretavano il ruolo di pazienti psichiatrici prima, durante e dopo lo spettacolo, mettendo in scena ciò che non potevamo far fare a chi è davvero ospite dei centri. E così i signori e le signore che sono arrivati a teatro per mostrare al mondo il loro grande cuore, si sono ritrovati subito immersi in quella realtà che avrebbero preferito vedere solo sul palco e poi basta, invece no. Sono stati scortati fino alle auto dopo lo spettacolo. E una signora ha detto “ma questi li lasciano liberi così?!”. Come fossero bestie.

Non potevamo raccontare tutto, ma ci abbiamo tentato. Più che potevamo abbiamo cercato di non strumentalizzare la patologia dell’attore, abbiamo cercato di proteggerlo da chi doveva a sua volta proteggerlo, ma che s’è perso per strada, forse accecato dalle luci di scena. Perché non può bastare un segno della malattia a fare di un ragazzo un malato da esibire, non possono due occhi a mandorla far sì che un down sia down e basta, non puoi dire che fai teatro integrato e poi non integrare niente.

Ci abbiamo tentato, ci siamo riusciti. Ora si volta pagina.

Non più stagioni, non più primavera e poi fortuna che c’è un’ora in cui è sera

E’ come un muro, un muro molto spesso, robusto, che però non si vede. E’ fatto di ignoranza e di odore. E’ ciò che mi ha diviso, fino a due anni fa, dai centri di cura e accoglienza per malati psichiatrici e con handicap fisici gravi.

L’ignoranza è intesa come non conoscenza, con tutte le associazioni che si porta dietro la faccenda: paura, pregiudizio, timore, pudore, malinteso, ansia, imbarazzo, errore di valutazione. Ciò che non si conosce e non si vuole conoscere è dimenticato, o meglio, ciò che non si conosce e non si vuole conoscere è considerato nel dimenticatoio, catalogato come inesistente.

L’odore è simile a quello che io chiamo “odore del centro commerciale”: quel mix stomachevole nella corsia tra abbigliamento&giocattoli e generi alimentari, quel punto di incontro tra la plastica delle Barbie e l’acrilico delle mutande e il pesce fresco, la carne, la mortadella e la frutta&verdura. Laddove cipolla e ciabatta si incontrano, ci aggiungi l’odore della disperazione (merda, piscio, tabacco, vomito) e ottieni l’odore del centro di cura.

Lo sfondi come un muro spesso, robusto e invisibile, fatto di spessa gelatina e una volta dentro è terribilmente facile capire che non è così distante da te. Per me è stato così. Due anni fa. Sono entrato nei centri di cura per fare un’esperienza di lavoro volontario, un laboratorio di teatro nel quale avrei imparato tanto da loro, dai pazienti, e invece ho avuto anche la fortuna di poter dare, non solo ricevere. Non era scontato, perché sono persone che stanno male, malissimo, davvero.

Si parla di gente con disturbi della personalità, Alzheimer, follia da film, gente con cinque personalità tutte insieme, spastici, qualcuno è imprigionato su una carrozzina e muove solo occhi e dita delle mani, qualcun altro non sa neanche di esistere, altri ancora hanno una forza sovraumana che sfoderano a ogni piè sospinto. Gli ultimi degli ultimi, quelli che a guardarli in faccia ti accorgi che non sono presenti.

Forse ho avuto fortuna perché ho fin da subito utilizzato un linguaggio non quotidiano, il linguaggio del teatro corporeo, le musiche sublimi, ma credo soprattutto sia stata la mia spudorata sincerità, l’onestà, la schiettezza che ci ho voluto mettere. Li ho guardati negli occhi prima di tutto, li ho trattati da esseri umani come non venivano trattati da parecchio evidentemente. Li ho rassicurati nel lavoro, rimproverati duramente quando si comportavano male, ringraziati per ogni gesto, lasciati a loro stessi quando facevano i capricci, ho scherzato coi miei coetanei ricoverati al centro come se scherzassi coi coetanei qualunque.  Mi hanno dato tanto e spero di aver dato tanto io a loro.

Abbiamo fatto insieme un percorso di laboratorio teatrale e due spettacoli in un grande teatro cagliaritano. E vedermeli lì mi ha dato l’impressione di vederli per la prima volta coscienti di chi sono, dove sono e cosa stanno facendo. Erano sempre precisi al millimetro con le azioni e gli spostamenti scenici, erano determinati a stare su quel palco come me, erano bellissimi. E sono stati bravi come pochi tra noi attori professionisti normodotati.

L’unico neo di questa esperienza? Gli altri.

[FINE PRIMA PARTE]

La lettera

Qualcuno ha detto “Nello scrigno dei ricordi il tempo ne deteriora le immagini ma non l’essenza”. Qualcun altro ha detto “Le cose che ami di più al mondo non ti verranno mai strappate via”. Io ci credo, ora ne ho la prova. So che né la morte né la malattia possono portare via i sentimenti. L’amore prescinde dal fatto che la persona per la quale lo si prova sia morta, o ammalata.
Ogni mattina mi sveglio e penso a mia madre. Ogni notte vado a dormire pensando a lei. Ogni istante della mia vita, giorno dopo giorno dopo giorno è dedicato a lei. A te mamma…
Tu, ti ricordi di me?
Io mi ricordo delle lunghe passeggiate in campagna che facevamo quando ero piccola e di tutte le cose che mi raccontavi mentre camminavamo tra alberi e fiori sotto il cielo. Mi ricordo di come ti preparavi, la mattina, prima di uscire di casa, mi ricordo la perfezione che pretendevi alla tua cura. Mi ricordo di com’eri bella, bellissima, così affettuosa, così estroversa… come sei adesso, ma forse in maniera diversa.
Io mi ricordo anche che il mio papà, tuo marito, se n’è andato per sempre quando io ero piccola e morendo lui, se n’è andato tutto. Non c’era più niente da perdere. Invece dopo un anno hai scoperto che c’era altro dolore da provare, che esiste un dolore più grande della perdita di un compagno di vita: esiste la perdita di un figlio. Un anno dopo papà, anche mio fratello è andato via per sempre. I tuoi uomini ti hanno lasciata, tradita, abbandonata.
Mamma, ricordare le cose è fissarle nella memoria e pazienza se qualcosa fa male, pazienza se ricordare le cose brutte le rende sempre presenti. Insieme alle cose brutte ci sono anche le cose belle, ci sono le passeggiate tra alberi e fiori, ci sono la tua bellezza, il tuo amore incondizionato per le persone, ci sono papà e anche tuo figlio, strappati via troppo presto a noi, alla vita.
Io mi ricordo che sono stati anni difficilissimi poi, che ti sei sempre più chiusa in te stessa, sempre più impermeabile, sempre più sola tra la gente, sempre più triste nella gioia della vita. E poi sei esplosa. Esplosa come una bomba che non fa rumore, come un acquario che non sparge acqua, sei esplosa come una primavera senza fiori.
E’ stato poco prima di Natale, forse mancava una settimana, forse quel Natale non è mai arrivato. Sei esplosa iniziando a dimenticare le banalità della vita, hai come sottratto  e sottratto sempre di più. Quel dicembre hai cominciato a chiedermi di tua madre che era morta da tempo. C’era qualcosa che non andava in te. La nostra vita si è trasformata, adesso mi sento io la tua mamma.
Ma mi chiedo: ora sei felice? Adesso che sei esplosa senza fare chiasso, che hai seppellito tutto dentro di te, o fuori da te: sei felice? Sei felice come non lo sei mai stata? Sei più serena rispetto all’inferno solitario che hai vissuto dopo che i tuoi due uomini ti hanno lasciata, ci hanno lasciate? Adesso che sei quì o altrove, ti devo dire una cosa, una cosa di cui non mi vergogno, una cosa che dico da figlia: anche se per te, ovviamente, avrei voluto una vita diversa, anche se poteva andare meglio, sono felice che tu non sia più depressa.
Ogni mattina facciamo colazione insieme, ci prepariamo, belle, bellissime, per uscire di casa. Vuoi sempre uscire mamma…vuoi compensare il troppo tempo passato da sola a casa? E usciamo, veniamo al Centro di Vallermosa. La prima volta che ti ci ho portata mi hai guardato strana e mi hai rivelato che qui “sono tutti malati”. Io lo so che tu non sei ammalata mamma, ma in questo posto possono aiutarti come io non potrei fare, qui puoi renderti utile come fai sempre: puoi aiutare chi sta male, portare in giro le persone sulla carrozzina, aiutare le ragazze e i ragazzi ad apparecchiare e sparecchiare la tavola, rifare i loro letti. Fare un po’ la mamma che con me non riesci più a fare.
L’unica cosa che da mamma ti è rimasta è la tua grande preoccupazione per me. Non mi vuoi lasciare sola, sai cosa significa la solitudine e non la auguri a nessuno, tanto meno a tua figlia. Dove sei? Con chi sei? Quando torni? Mi chiedi sempre queste cose. Forse vuoi sempre uscire con me perché vuoi essere sicura che io stia bene? E quanto ti piacciono il mio compagno e i miei amici. E lo sai mamma che anche tu piaci a loro? Come potresti non piacergli…sei così bella, sei così piena di vita…
Mamma, lo sai che io a volte non ce la faccio? Lo sai che io a volte non riesco più ad andare avanti? Lo sai che non ci immaginavo così a questa età? Lo sai che mi sarebbe piaciuto che tu ti fossi risposata o che comunque un altro uomo ti avesse aiutata a portare il peso della vita e dei dolori? Mamma, lo sai che certe volte avrei voluto un destino diverso per noi? Lo sai che non ti cambierei con niente e nessuno al mondo, ma a volte non ce la faccio, scoppio ed esplodo anche io, però con le lacrime, con i “perché è successo a me?”. Mamma, poi tu ti avvicini, mi chiami “Amore mio” e mi accarezzi. “Amore mio” e mi baci. “Amore mio” e mi fai passare le lacrime. “Amore mio” e mi dai la forza…
Mi hanno chiesto cosa vorrei dirti se per un istante tu fossi qui con me, presente alla vita come lo sono io. Io ti direi che sei la mamma più bella del mondo e io non ti lascerò mai sola.

di Andrea Ibba Monni per “Fortuna è sera – il tempo qui non muore mai”, Cagliari, 2 luglio 2011

To Do list

Finiti gli impegni numerosissimi a teatro di questa estate (solo con la mia compagnia Ferai Teatro abbiamo portato in scena sette spettacoli: Il Silenzio dell’Anima, Terra Sarda, I Danzatori tra le Stelle, Air Can Hurt You, Cantor Albus, L’Arte Come Veicolo, Nel Segno della Croce e fatto un laboratorio intensivo)  adesso mi dedico per due settimane a me stesso (e pazienza se devo comunque lavorare a progetti teatrali altrui, almeno il mio cervello si riposa un po’ e posso cazzeggiare di più).

Cose da fare entro breve (clicca sui link per aprire le foto):

  1. Tagliare i capelli – li ho decolorati talmente tanto che sono più rovinati loro del pupazzo Uan messo in lavatrice a 50 gradi. Mi hanno consigliato di colorarli di castano per evitare il taglio, ma se prendessi in mano una tinta, il mio cuoio capelluto diventerebbe budino alla vaniglia. No, non c’è un motivo plausibile affinché lo divenga, ma a me piacerebbe così, perché avrei una merenda sempre con me.
  2. Fare una dieta disintossicante – ho mangiato più schifezze io di Britney Spears nel suo periodo d’oro e ho un’estrema necessità di mangiare sano. Ci ho dato talmente dentro coi fast food che i ragazzi della Mc mi hanno come punto di riferimento nelle noiose giornate tra patatine e frappé al cioccolato. Anche basta.
  3. Finire di rileggere Se il sole muore, di Oriana Fallaci- e dedicarmi alla lettura dei 654346 libri che mi hanno prestato e suggerito caldamente amici e conoscenti. Ti piace leggere? Nel momento in cui ti fai una lista di libri da leggere, e sono tanti, in successione e con tanta cura, ecco che ti prestano e ti regalano libri a profusione: non che sia un male, ma dai la priorità ai libri imprestati, sennò la gente li rivede al ventesimo compleanno di Lourdes Ciccone.
  4. Fare l’esorcismo alla casa– essendo casa mia e di Ga anche sede della compagnia e ovviamente magazzino in cui custodiamo costumi, scene, testi, copioni, trucchi e compagnia bella, mi sembra di vivere in un bazar (o in Priscilla, la regina del deserto). Comodissimo avere la sala prove in casa: non devi uscire, puoi lavorare sempre a tuo piacimento, ma dopo le prove ti ritrovi senza una goccia d’acqua (il cast se l’è bevuta tutta e mai nessuno che abbia la bislacca idea di portarsi una borraccia), con la casa che puzza (non si sono portati l’acqua, vuoi che si siano ricordati di fare la doccia o cambiarsi i calzini?) e con la casa invasa di costumi usati in prova. Un macello.
  5. Scrivere il post sul blog in merito all’estate 2010– ce l’ho in testa ma devo buttarlo giù. Questo post era noioso? Siccome le disgrazie non vengono mai sole, ecco che ne leggerai un altro, ancor più inutile e tedioso. Mica sei obbligato, sai?

Se il Sole Muore? #1

L’uomo non è fatto per stare in prigione, è fatto per scappare e pazienza se rischia d’essere ucciso scappando.

L’uomo viene dal mare dove prima era pesce, anche il mare era per lui una prigione da cui evadere sembrava follia. Eppure ne evase e pazientemente e dolorosamente salì fino alla riva, si abbatté dentro l’aria. Non respirava nell’aria. Le sue branchie supplicavano acqua, acqua, acqua, e in quel vuoto senza liquido lui affogava soffocava moriva, la Terra era un inferno per lui, un incubo bianco di luce che lo accecava, lo incollava come ventosa, ma lentamente pazientemente dolorosamente, di nuovo tentando di nuovo morendo di nuovo tentando, per milioni e milioni di anni, egli riuscì a non affogare nell’aria, a non farsi accecare dal bianco, a non restare incollato alla riva. Si fabbricò polmoni adatti e riuscì a respirare nell’aria. Si fabbricò occhi adatti e riuscì a guardare nel bianco. Si fabbricò zampe adatte e riuscì a spostarsi per terra. Si fabbricò una spina dorsale adatta e riuscì ad alzarsi in piedi. Si fabbricò mani adatte, con dita, e riuscì ad agguantare le cose. E così un giorno si accorse che poteva fare di più: poteva pensare.

E pensando seppe d’essere uomo.

E gli piacque talmente essere un uomo che da uomo inventò ciò che la natura non aveva inventato. Fregò svelto due pietre e accese il fuoco. Tagliò un albero a fette e costruì le ruote. Mise insieme il fuoco e le ruote, fabbricò il treno. Sul treno scoprì che poteva andar svelto e lontano, poteva volare come gli uccelli: e divenne geloso degli uccelli, rubò loro le ali, le mise al treno e volò. Più alto, sempre più alto, finché divenne geloso delle stelle e creò rozze copie di stelle e schizzò via con loro: a veder oltre la porta chiusa del cielo.

Ma per l’amor di Dio: se una porta è chiusa non ti prende l’impulso di aprirla e guardare cosa c’è dentro?

La storia dell’uomo non è forse una storia di porte chiuse e aperte?

Oriana Fallaci

Se il Sole Muore

1 – Il Silenzio dell’Anima

“Ognuno è un cantastoria
tante facce nella memoria
tanto di tutto tanto di niente
le parole di tanta gente.
Tanto buio tanto colore
tanta noia tanto amore
tante sciocchezze tante passioni
tanto silenzio tante canzoni.”

Avevo tutto. Ero davvero un uomo felice. Un ragazzo cresciuto, pieno di tutto ciò che potevo desiderare: soldi, amici, amore. Tutto , e forse tutto era troppo. Vivevo costantemente nel terrore di perdere quel mondo che mi ero costruito con tanta fatica e anche quei mondi paralleli che erano altri valori, inestimabili, aggiunti al mio. E vivevo sempre nell’attesa che poi quella luce mi accecasse, come una falena salivo sempre più su, e invece che sempre più solo ero sempre più amato. Sempre di più. Finché non sono salito troppo in alto e ho cominciato a bruciare.

Si muore da soli.

E infatti neanche gli angeli mi hanno potuto aiutare, perso com’ero nel mio vortice. Ed ero così in alto ormai, che il tonfo è stato tremendo. Mi sono svegliato senza più nulla, neanche la possibilità di muovermi di un centimetro. Immobile come una statuina inutile, come una pianta grassa. Si dice vegetale, no? Perso tutto. Ho voluto troppo? Ho ringraziato sempre di ogni soldo guadagnato, ho sempre benedetto di ogni occasione lavorativa piovuta dal cielo, ho sempre pensato di non meritare l’amore che ricevevo (e ne ho ricevuto in abbondanza), eppure le ho scontate tutte.

La felicità si paga a un prezzo crudele. E cosa c’è di più crudele del fatto che, pietrificato e imprigionato in una statua, quell’incidente non mi ha levato la consapevolezza? Si, penso. Penso ma non sono. Capisco ma non posso farmi intendere.

Vedo solo ciò che mi circonda in questo presente imperfetto e mi tuffo costantemente in un passato remoto. Ho paura, come allora.

Intro – IL SILENZIO DELL’ANIMA

Apro gli occhi e non so dove mi trovo. Mi capita spesso di addormentarmi in una stanza di casa mia e di risvegliarmi in un’altra, ma stavolta è diverso. Non sento l’odore del gatto ma sento l’odore pungente di cacca e alcool etilico: conosco bene entrambi gli odori, perché spesso mi sporco con le mie stesse feci e mi piace sentire l’odore dei detersivi, delle medicine.

È tutto così difficile.

Sono legata a un letto, mentre una donna mi guarda dall’alto. È piccola piccola, ha gli occhi da rospo, la pelle del viso rovinata, le sporgono i denti dalle labbra che tenta di lasciare serrate in un ghigno bizzarro. Puzza di merda anche lei. Biascica parole.

È tutto molto strano.

Mi picchia sulla testa, mi da un bacio sulle labbra e me le lascia appiccicate. Se ne va. Arriva una donna col camice bianco, mi sorride, mi chiede delle cose, non mi va di rispondere, salgono le lacrime, le chiedo acqua, ma non capisce. O finge di non capire. Mi chiama con un nome che non mi appartiene, cerco il gatto, cerco mia madre, cerco di alzarmi, voglio dell’acqua.

Dopo un’altra dormita mi sveglio completamente rintontita. Scopro di essere in una struttura psichiatrica. Lo capisco. Bevo una bottiglia d’acqua, sono completamente piena di urina. Mi cambiano, mi lavano, mi mettono dei vestiti puliti. Sono felice.

Mi alzo, esco dalla camera e li vedo, tutti lì, ad aspettare che la vita venga a prenderli. E se la vita non dovesse ricordarsi di loro, almeno la morte.

Pillole di questa fine primavera

  • ImmagiLa primavera sta finendo e sabato celebreremo l’ESTATE con un consueto Summer Party, sono un po’ indeciso sul menù, a parte crudité di verdure, sangria ghiacciata e tantissimi cocomeri. Ga’ cucinerà dolci a sorpresa, ma cosa mettere sotto i denti?
  • Per ora al mare ci vado solo di sabato per giocare a interminabili ma avvincenti partite di pallavolo, in vista del torneo tra un mese esatto. Ancora troppe prove di teatro, scout, impegni di vario genere per buttarmi in spiaggia a prendere la tintarella. Non va bene, ma conto di recuperare prestissimo.
  • Ogni mattina la mia sveglia era Listen di Beyonce, ma siccome poi ero sempre molto malinconico e in vena di acuti pazzeschi, ho optato per un’altra canzone “tranquilla” che mi destasse. La scela è caduta su Come Foglie di Malika Ayane. Mi chiedo ogni mattina come mai “ha piovuto il caldo”
  • Ieri shopping folle con tanto di zaino nuovo per i campi: è bellissimo!

Devo prepararmi per andare in palestra, questo post vale la pena solo per la bellissima foto, il resto andrebbe nella rubrica “CHI SE NE FREGA”. Mi sa che creo la categoria.

Altro. Escape (separare i tag con le virgole)

Deve essere sempre tutto difficile, sennò pare che non vada bene.

Sette anni, di cui 2550 giorni passati a:

litiGare recriminareE accusare difenderepropaganda_mother1

offendere ferire uccidere Morire rInascere

distruggere costruire scopare ridere

PiangEre rompere correRe scappare

sucChiare avvelenare incHiodare scrivere lEggere

strappare caNtare incOllare tagliare stappare

Nascere fermare cucire castrare PUlire

Osservare reprimere pregare godere EStinguere

SEcernere REsuscitare soccombere

vomitare ubriacare TUTTO

sanguinare penetrare EASIER ricordare

ENOUGH OF THAT

Forse ho raggiunto il mio limite, e non ne posso davvero più. Forse non ne vale più la pena. Non lo so. Ho scoperto che sono altro, che la vita può essere altro, che l’amore può essere altro, che l’amicizia può essere altro. Io sono stanco di cose successe una vita fa, in cui la redenzione dei peccati non è mai stata ammessa, in cui l’amnistia è utopia e il coltello quando affonda affonda sempre più giù. Ma poi,    P E R C H E ‘ ? Che senso ha? Ci capisco sempre di meno.

The road to heaven, paved with good intentions

Sa Die, il Giorno.

28 aprile del 1794. Quel giorno, di tanti anni fa, i sardi si sono ribellati contro i piemontesi.

Il quartiere di Castello, a Cagliari, era riservato ai nobili e alle truppe: un reggimento piemontese e un reggimento svizzero. Cagliari era come una città occupata con al centro una grande caserma. E ci trattavano male. Sapete come ci chiamavano? Sardus molentis! Sardi asini!

Pensate che nel 1793 i francesi volevano conquistare la Sardegna e i piemontesi erano già pronti ad arrendersi, ma noi sardi abbiamo combattuto e abbiamo vinto. E il re di Torino, signor Savoia, sapete a chi ha dato i premi della vittoria? Ai piemontesi che comandavano qui e che non avevano combattuto.

I sardi dicevano “comenti? Nosus eus cumbattiu e su Rei at premiau custus mandronis” “Come? Noi sardi abbiamo combattuto e il Re ha premiato quei fannulloni!” “Chi funti bennius innoi langineddus e senz’e mudandas e s’indi andant grassus e arricus?” “Che sono venuti qui morti di fame e senza mutande e se ne vanno belli grassi e ricchi! Andiamo a protestare a Torino!” Una delegazione di personalità sarde va a Torino, dove, allora, c’era il Re e la sua corte. Ma il re non li riceveva. Allora scrivono agli altri compatrioti:

“Dobbiamo ribellarci a Cagliari perché qui il re e i suoi ministri non ci ascoltano”. Si decide di preparare la protesta per il 4 maggio, a sa torrada ‘e sant’Efis, la sera che la statua di S.Efisio torna da Nora: c’è la sfilata, i cavalli, gente, e si approfitterà per fare la protesta al vicerè Vincenzo Balbiano.

Ma una spia avverte il viceré, su visurrei baioccu, l’odiato Balbiano. Sapete cosa vuol dire “baioccu” in sardo? Orbo, era orbo ad un occhio, aveva una vistosa benda sull’occhio sinistro.

La mattina del 28 aprile, il Viceré Balbiano fa arrestare, come capi della rivolta, due cagliaritani molto conosciuti all’epoca: Vincenzo Cabras e Bernardo Pintore,. Ma invece di fermare la rivolta con questo gesto scatena la rivoluzione sarda.

Era cominciata la rivolta per liberare Cabras e Pintore. Dai quartieri popolari di Cagliari, Stampaxi, Sa Marina, Biddanoa, dalle chiese dove si erano radunati, erano partiti, uomini e donne, armati con tutto quello che potevano, per dare l’assalto a Castedd’e susu.

Per la cronaca, i piemontesi sono tornati in Sardegna 9mesi dopo, e ci sono rimasti fino all’Unità d’Italia.

Domani, 27 Aprile, in Piazza Palazzo a Cagliari, interpreterò un rivoltoso nella rievocazione storica di Sa Die.