Come si cambia.

Certe volte (anzi, come scrisse un mio compagno di classe in terza superiore “c’erte volte”) c’è da restarci secchi. Ti guardi indietro e non ti riconosci più.

Come per l’entusiasmo che quasi non mi fa dormire la notte quando penso che l’indomani mattina andrò in palestra. “Io” e la “palestra” fino a un po’ di tempo fa non andavamo d’accordo neanche in una stessa frase. Come per il fatto di riuscire a tenere i nervi saldi sempre più e di rispondere con un sorriso carico di significato alle situazioni più disparate. Sono diventato la Victoria Grayson del sud Sardegna, sì. Mi sveglio con strane voglie musicali: da un po’ di giorni Rihanna e Mariah Carey.  chi mi conosce sa che le ho sempre detestate. Un po’ come le carote cotte che invece ora riesco a mettere nel minestrone o nel sugo. Certe volte dico “non va mica bene come sono diventato”, ma poi prescindo dalla palestra, dal cibo e dai gusti musicali enon voglio più spararmi. Faccio bene, no?

Là sotto.

Là sotto da piccolo ero convinto che ci fosse Miss Milù, una vecchina minuscola, alta 10 centimetri al massimo, con la crocchia in testa e odore di gatto. Veniva a darmi la buonanotte dal fondo del letto, buio, e poi tornava lì buona buona. Non abbiamo mai fatto tante chiacchierate. Non ne abbiamo mai avuto bisogno.

Là sotto da grande non ho mai voluto guardare. Perché sapevo che lei non ci sarebbe più stata e che ero da solo. Ogni tanto stavo da dio da solo là sotto, certe volte meno.

Là sotto adesso ci sei tu. Ti ho visto sotto quella luce bellissima. Con i tuoi occhi bellissimi. Le tue labbra bellissime leggermente piegate in un sorriso bellissimo. Il tuo corpo là sotto. Il tuo amore là sotto. Il nostro mondo là sotto.

Ci starei per sempre là sotto. Con una vecchina alta dieci centimentri che puzza di gatto, anche da solo (ma non sempre) ma soprattutto con te.

Buon Natale.

Caro Babbo Natale,

sto per andare a fare animazione teatrale al microcitemico, dove tanti bambini terminali passeranno il Natale. Non è la prima volta che ci vado e ciò che mi ha impressionato di più non sono loro (loro sono bambini che vivono l’unica realtà/dimensione che conoscono, stanno “bene”) quanto i loro genitori. Quella è la faccia della disperazione. Mentre noi facciamo i buffoni e il loro figlio ride e si diverte, seppure affaticato, mamma e papà guardano quelle faccine smunte e si imprimono nella memoria quella che può essere una delle ultime risa del sangue del loro sangue

E io starò lì, vestito da elfo di Babbo Natale, con la mia voce in falsetto a fare l’idiota e a cercare di strappare quello che può essere l’ultimo sorriso di una creatura. E penserò: sono sato fortunato, finora.

Caro Babbo Natale, devo aggiungere altro?